Il progetto "Colline Metallifere" e la produzione di allume tra Medioevo ed Età Moderna
Il territorio delle Colline Metallifere è da oltre venti anni al centro di un complesso progetto multidisciplinare, coordinato dal Dipartimento di Scienze Storiche e dei Beni Culturali dell’Università di Siena, le cui finalità scientifiche si indirizzano alla comprensione del rapporto esistente fra le importanti risorse del sottosuolo presenti nell’area ed i modelli insediativi che hanno caratterizzato il comprensorio nel corso dei secoli. Il progetto di ricerca, pur essendo fortemente diacronico, individua nel tema della formazione del paesaggio medievale e del suo consolidamento in relazione allo sfruttamento ed alla gestione delle risorse metallifere, un focus di particolare rilievo.
L’area, come noto, ha una lunghissima tradizione estrattiva e metallurgica legata alla presenza di significativi giacimenti a solfuri misti, largamente sfruttati a più riprese per la produzione di rame, argento, piombo e ferro. A partire dal X secolo e per tutti i secoli centrali del Medioevo lo sfruttamento dei minerali di rame e piombo/argento in particolare, coltivati per ottenere i cosiddetti “metalli monetabili”, conobbe una stagione di intenso sviluppo, della quale rimangono importanti segni sul territorio. Lo studio di tali significative tracce ha consentito di ricostruire molti aspetti dei processi estrattivi e metallurgici, e più in generale, di inquadrare l’intero contesto ambientale ed i segni dell’attività dell’uomo sia dal punto di vista dell’archeologia della produzione che della storia del paesaggio.
Proprio nel cuore del territorio delle Colline Metallifere, e precisamente nel comune di Monterotondo Marittimo, grazie all’attivazione di una importante sinergia fra ente di ricerca ed amministrazione locale, nel 2008 ha preso avvio lo scavo di Monteleo. E’ grazie a questa indagine pilota, la prima dedicata ad una “allumiera”, che anche lo studio del ciclo di produzione dell’allume alunitico è entrato di diritto all’interno del “Progetto Colline Metallifere”.
La produzione di allume e la ricerca archeologica
La scarsità della documentazione archeologica relativa a questo importante ciclo produttivo è in gran parte legata alla difficoltà di identificarne gli indicatori; per tale ragione la maggior parte delle informazioni ad oggi note sono tratte dalla documentazione tecnica (in particolare dai testi di Vannoccio Biringuccio e Giorgio Agricola, entrambi della metà del XVI secolo). Le indagini condotte sul sito di Monteleo hanno invece consentito di aggiungere dati di carattere archeologico che si rivelano molto utili per inquadrare l’organizzazione della produzione all’interno di un’allumiera. Si tratta infatti di un luogo dalle molteplici funzioni, nel quale si muove una manodopera numerosa, più o meno specializzata, che utilizza impianti differenziati e spazi precisi e ben organizzati.
Il sito di Monteleo
L’allumiera di Monteleo è localizzata al limite NW del territorio comunale di Monterotondo Marittimo, a ridosso della pianura del Frassine. Quest’area, nota per le sue manifestazioni geotermiche, è anche una delle zone di alta concentrazione dell’alunite nel territorio della Toscana meridionale. L’allumiera si sviluppava lungo le due sponde di un locale corso d’acqua, il torrente Risecco, la cui portata era sufficiente a garantire l’apporto necessario alla lavorazione. L’estensione complessiva dell’articolato sistema produttivo di Monteleo è ad oggi solo parzialmente conosciuta, ma certamente considerevole; le indagini topografiche hanno individuano infatti la presenza di regolarizzazioni della quota, opere idrauliche, resti di viabilità di servizio su un’area di circa 2 ettari
I documenti storici
I documenti indicano che il territorio di Monterotondo Marittimo fu al centro di interessi legati allo sfruttamento dell’alunite, e conseguentemente sede di una allumiera, già dagli anni ’70 del XV secolo; una serie di elementi di carattere topografico, oltre alla localizzazione dei principali depositi di alunite, consentono di proporre la realistica identificazione fra i resti che sono oggetto di scavo e l’allumiera dette “delle Crocicchie”, promossa da Rinaldo Tolomei in società con Pandolfo Petrucci già nel 1502. Dell’allumiera rimane una preziosa documentazione contabile relativa agli anni 1507-1508, dalla quale è possibile ricostruire il ritmo della produzione, il numero degli addetti (almeno 100) e, in parte, quale fosse l’organizzazione del lavoro. Questa iniziativa imprenditoriale, pur di breve durata, riattivò verosimilmente impianti già esistenti e fu mirata alla produzione di una materia della quale vi era richiesta pressante da parte delle manifatture cittadine, principalmente di stoffe e pellame.
Per una migliore comprensione dei resti e degli indicatori di produzione, sul sito sono state impiegate in modo sistematico le analisi chimico-fisiche: queste ultime, se applicate su larga scala all’interno dei contesti di scavo, consentono di interpretare con maggiore sicurezza spazi e strutture altrimenti di complessa lettura. Esse divengono inoltre essenziali per definire meglio la natura dei diversi cicli produttivi che insistono spesso sulle medesime aree del sito.
La ricerca della materia prima
La materia prima trattata a Monteleo come nelle altre allumiere del contesto toscano, era l’alunite, un solfato basico di alluminio e potassio (KAl3(SO4)2(OH)6) che si rinviene in significative percentuali entro le rocce sedimentarie (scisti argillosi o argille ricche in alluminio e potassio), ed è presente in alta concentrazione nell’area posta al confine fra le province di Grosseto, Pisa e Livorno; è qui che la ricerca ha permesso di localizzare vari punti di estrazione ed i resti di alcune fra le più importanti strutture produttive del territorio della Toscana meridionale del XV-XVI secolo.
I depositi alunitici toscani conobbero una stagione di intenso sfruttamento a partire dagli anni ‘70 del XV secolo; tra il 1470 ed il 1502 nell’area delle Colline Metallifere videro la luce ben sette impianti, che andarono a posizionarsi a ridosso delle aree estrattive. La ricognizione archeologica ha individuato diversi punti di antico approvvigionamento della risorsa, la cui coltivazione era prevalentemente condotta ‘a cielo aperto’. Questa tecnica, ampiamente attestata anche dalla trattatistica, prevedeva l’avvio dell’escavazione mediante l’apertura di una trincea ed un rapido ampliamento del fronte di cava. Nei siti dove la coltivazione dell’allume si è protratta sino alla metà del XVIII secolo o addirittura, come a Montioni, è stata ripresa anche nel XIX, si registra invece la presenza contestuale di diversi metodi di sfruttamento, ossia scavi in sottosuolo (galleria) e cave..
Il ciclo produttivo
Una volta cavato e selezionato, il minerale veniva portato alle ‘allumiere’, cioè ai siti predisposti alla sua trasformazione in allume; questi siti erano posti a breve distanza dai fronti di cava per minimizzare i costi legati alla movimentazione dei carichi, e a ridosso dei corsi d’acqua. Le operazioni necessarie per trasformare il solfato insolubile (cioè l’alunite) in solfato solubile sono ben descritte in letteratura sia nell’opera di Biringuccio, che in quella di Agricola, di poco successiva. Qualche secolo più tardi, alla metà del XVIII secolo, gli stessi passaggi furono trascritti con grande puntualità dallo scienziato e naturalista Giovanni Targioni Tozzetti. Questa descrizione tarda è particolarmente importante, perché corrisponde alla diretta osservazione delle attività operative realizzate proprio a Monteleo, e registrate da Targioni nel corso di un sopralluogo compiuto sul sito nel 1745.
Quattro sono i passaggi fondamentali del ciclo produttivo che vengono individuati da tutti gli autori, cioè la ‘calcinazione’, la ‘macerazione’, la ‘lisciviazione’ ed infine la ‘cristallizzazione”.
Secondo Biringuccio, la “calcinazione” prevedeva la cottura del minerale per alcune ore (in genere 12-14 ore) ad una temperatura costante tra i 600 e i 700°, in forni molto simili a fornaci da calce; al termine della cottura si otteneva un solfato anidro, solubile in acqua. A Monteleo gli impianti da calcinazione più antichi (XV-primi anni del XVI secolo) sono strutturati in una batteria di quattro fornaci che lo scavo ha completamente indagato fra il 2008 ed il 2010; i forni, esito di un unico grande intervento costruttivo, misurano circa m 2,70 di altezza ed hanno un diametro interno di m 2,50. Esse furono posizionate lungo un pendio ben esposto verso SE e incassate profondamente all’interno di un terrazzamento parzialmente artificiale. Le fornaci da calcinazione più recenti, cioè quelle descritte da Targioni, furono invece collocate sull’altra sponda del corso d’acqua, a breve distanza dagli impianti di lisciviazione dello stesso periodo. Di queste fornaci sono purtroppo visibili solo parziali evidenze relative a due impianti.
Dopo essere state calcinate e selezionate, le pietre venivano portate in luoghi appositi (ampi spazi all’aperto) dove erano bagnate in abbondanza, in modo che esse si sgretolassero fino a diventare una massa pastosa (‘macerazione’). Questa operazione poteva durare un tempo variabile, compreso fra 40 e 60 giorni a seconda della stagione, e prevedeva l’impiego di moltissima acqua; per tale ragione le cosiddette ‘piazze’ venivano posizionate in prossimità di canalizzazioni che garantivano un costante apporto idrico. L'acqua, elemento preziosissimo per l’intero ciclo produttivo, giocava un ruolo cruciale specialmente in questa fase.
La pasta proveniente dalla macerazione doveva essere depurata e poi concentrata per favorirne la cristallizzazione; questo passaggio (la cosiddetta ‘lisciviazione’) avveniva in caldaie apposite, ben diverse dalle precedenti fornaci da calcinazione e posizionate anch’esse in prossimità di canalizzazioni, poiché il volume di acqua necessario a tale passaggio era considerevole. All’interno delle caldaie era inserito un grande calderone metallico con fondo in rame, nel quale la soluzione di minerali ed acqua bolliva per 24 ore circa, mentre degli addetti provvedevano a mescolarla continuamente. In alcuni casi al posto di un intero recipiente metallico si poteva utilizzare un semplice fondo in metallo che veniva perfettamente incassato all’interno di una vasca in muratura a forma di imbuto, dalle pareti rivestite di un solido strato di cocciopesto; questo è il tipo di caldaia da lisciviazione rinvenuta a Monteleo.
La presenza di un articolato sistema di canalizzazione idraulica prossimo alla caldaia e la vicinanza degli impianti di lisciviazione di XVIII secolo permette di ipotizzare anche la probabile localizzazione dell’area destinata ad ospitare le vasche lignee all’interno delle quali veniva realizzato l’ultimo passaggio del ciclo produttivo, cioè la ‘cristallizzazione’. Dalla caldaia la parte di soluzione alluminosa, priva di impurità, veniva infatti versata o trasportata all’interno di appositi contenitori comunicanti. Dopo un periodo di circa 15-30 giorni, l’allume iniziava a cristallizzarsi sulle pareti dei contenitori, rimanendo attaccato alle pareti lignee, o ai teli di lino che dovevano ricoprirle. A questo punto il ciclo produttivo poteva dirsi concluso e l’allume veniva avviato alla rete commerciale.
Un sito "plurifase": ferro, rame e argento alla fine del medioevo
La storia produttiva del sito di Monteleo è assai lunga, ed al suo interno la stagione dell’allume, pur essendo fortemente caratterizzante, non è l’unica ad aver lasciato traccia di sè.
Le evidenze produttive più antiche sono localizzate al di sotto delle fornaci da calcinazione (Area 1000) e sono in parte obliterate da queste ultime; la datazione assoluta degli impianti restituita dalle analisi 14C riferisce i resti allo scorcio del XIII secolo, e le ceramiche ne prolungano l’uso alla metà del XIV secolo. Per realizzare questi impianti l’area venne parzialmente sgombrata da precedenti costruzioni murarie, delle quali rimangono solo i segni delle fosse di spoliazione: la storia produttiva del sito dunque, anche se non ne possiamo ricostruire i dettagli, è ancora più antica.
Di questo primo orizzonte produttivo è sopravvissuta, oltre a lacerti di elevato, anche una parte del deposito orizzontale connesso alle fasi di attività degli impianti, dalla quale provengono interessanti indicatori di produzione. Essi si riferiscono a cicli distinti, l’uno rivolto alla lavorazione di minerali ferriferi, l’altro a quella di minerali cupro-agentiferi. Nel primo caso lo scavo ha parzialmente intercettato due distinti piani ricchissimi di carboni, che hanno restituito scorie del tipo a calotta e a goccia, del peso complessivo di circa 36 Kg. L’indagine solo parziale del deposito non consente di stimare complessivamente il volume della produzione, mentre le caratteristiche degli indicatori permettono di interpretarlo come il segno di una attività di forgia.
Sul sito si è inoltre conservato parzialmente anche un “forno a chiave”, legato alla fase di “affinamento”, forse di rifusione, di prodotti cupro-argentiferi, di poco successivo rispetto alla fase sopra descritta. Immediatamente all’interno del prefurnio e nell’area a ridosso dell’impianto indagini sistematiche effettuate con strumentazione pXRF hanno evidenziato una significativa concentrazione di Cu, Pb ed Ag.
La presenza di queste differenti fasi produttive e la lunga cronologia del sito sono aspetti che meritano particolare attenzione, perché sono una spia dei mutamenti nell’organizzazione del paesaggio produttivo in un’area di antica tradizione, come quella delle Colline Metallifere.
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